La legge n. 130 del 31 agosto 2022, in coerenza con gli impegni assunti nel PNRR, ha riformato il processo tributario con l’obiettivo di contrarre al più possibile l’insorgere di controversie tributarie e di garantire tempi più celeri per la trattazione dei giudizi pendenti già instaurati e di quelli che in futuro si dovessero rivelare inevitabili.

Quando oggetto di un dibattito è il contenzioso tributario, inevitabilmente si pensa alla lite insorta per una pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria, per lo più rappresentata dall’Agenzia delle entrate, nei confronti del cittadino nella sua sfera privata ovvero nell’esercizio di una attività economica. Eppure, non di rado, il contenzioso tributario sorge dall’esercizio della potestà impositiva praticato da pubbliche amministrazioni differenti dall’Agenzia delle entrate, enti locali in primis.

In verità, a causa dei più modesti valori delle liti insorte tra cittadino e amministrazioni territoriali, per lo più comunali, nonché della particolarità di alcune contestazioni, buona parte delle novità previste per procedure e istituti di cui al D. Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, recate dall’articolo 4 della legge n. 130/2022, potrebbero avere maggior riflesso proprio su quella branca del contenzioso fiscale.

di Francesco Giuseppe Carucci

Il giudice monocratico

Al di là della nuova denominazione attribuita dal legislatore della riforma alle ex Commissioni Tributarie, ora Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, prima novità incisiva per la trattazione delle controversie con gli enti locali è l’istituzione del giudice monocratico.

La novità è di rilievo in quanto, come si accennava in premessa, le liti insorte tra cittadini ed enti territoriali recano spesso un valore modesto e la disposizione interessa le controversie il cui valore non eccede la soglia di 3.000 euro. Il giudice monocratico dovrà decidere il merito delle questioni soltanto in primo grado. Il giudizio di appello, fortunatamente, non subisce alcuna modifica rispetto al passato e le controversie saranno decise in composizione collegiale. L’avverbio “fortunatamente” è legato all’aver scongiurato l’intenzione originaria del legislatore della riforma, emersa dal disegno di legge, di imporre l’inappellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice monocratico. Ciò, come è evidente, avrebbe generato un’ingiustificata e ingiustificabile disparità di trattamento tra le parti in lite per le medesime fattispecie giuridico-tributarie per il solo discrimine del valore della lite a seconda che si attestasse al di sotto o al di sopra della soglia dei 3.000 euro. Invece, in virtù della norma definitivamente licenziata, la parte in causa che non dovesse condividere la decisione del giudice di prime cure potrà continuare a fruire del sacrosanto diritto di rivolgersi al giudice di secondo grado.

La composizione monocratica nel processo tributario, in verità, non è elemento di assoluta novità. Già l’articolo 70 del D. Lgs. n. 546 del 1992, infatti, con l’introduzione dell’articolo 10-bis ad opera del D. Lgs.

n. 156/2015, aveva previsto la decisione in composizione monocratica nel giudizio di ottemperanza avente ad oggetto il pagamento di somme entro la soglia di 20.000 euro e il pagamento delle spese di lite indipendentemente dal loro ammontare.

Il monitoraggio del valore di lite al fine di stabilire la competenza monocratica o collegiale del giudice avviene secondo l’ordinario criterio imposto dall’articolo 12, comma 2, del D. Lgs. 546/1992 in virtù del quale rileva il solo ammontare del tributo oggetto di contestazione senza calcolare sanzione e interessi. Se l’atto impugnato è relativo a sole sanzioni, si dovrà prendere a riferimento il relativo ammontare. Dalla competenza del giudice monocratico sono escluse le liti di valore indeterminabile. Problema che non si pone nel contenzioso tributario tra cittadini ed enti locali in quanto l’oggetto della controversia attiene al pagamento di un tributo determinato dall’ente impositore.

Le diposizioni relative all’introduzione del giudice monocratico si cominceranno ad applicare per i ricorsi notificati a decorrere dal 1° gennaio 2023 le cui udienze si svolgeranno esclusivamente a distanza, fatta salva la possibilità per ciascuna delle parti di richiedere nel ricorso “per comprovate ragioni”, la partecipazione congiunta all’udienza del difensore, dell’ufficio e dei giudici presso la sede della corte di giustizia tributaria.

Come per i tributi erariali, anche nelle controversie aventi ad oggetto i tributi locali, tuttavia, il maggior impatto della riforma nonpuò che essere ricercato nella rimodulazione dell’onere della prova, nell’ammissione della prova testimoniale e nel rafforzamento dell’istituto della mediazione. Onere della prova e prova testimoniale sono elementi riformati dal legislatore che, soprattutto con riferimento ai tributi comunali, risentiranno di una stressa connessione.

Onere della prova a carico dell’ente impositore, sogno o realtà per il contribuente?

Il legislatore della riforma ha aggiunto all’articolo 7 del D. Lgs. n. 546/1992 il comma 5-bis secondo il quale ricade sull’amministrazione fiscale l’onere di provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Gli elementi di prova, a menzione della medesima norma, saranno il cardine della decisione del giudice che dovrà annullare l’atto impositivo «se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni». Unica eccezione a questa regola generale è rappresentata dalle controversie che hanno ad oggetto richieste di rimborso di somme il cui pagamento non consegue ad un atto di accertamento impugnato.

La disposizione della legge esplica effetti differenti a seconda delle fattispecie contenziose rimesse alla magistratura tributaria e non esonera

aprioristicamente il contribuente dall’onere di dover fornire la prova del suo corretto atteggiamento.

Nel giudizio tributario, a meno che non si tratti di controversia relativa a rimborso di somme versate spontaneamente, la vertenza sorge sempre a seguito della notifica al contribuente di un atto emesso dalla pubblica amministrazione. In base al tenore letterale della novella normativa, pertanto, l’onere della prova dovrebbe ricadere sempre e soltanto sugli enti impositori. Ma a ben vedere, tale principio non può che valere laddove la materia da giudicare non sia dominata da una presunzione.

Le presunzioni sono definite dall’articolo 2727 del Codice Civile come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato». Le presunzioni sono legali o semplici (articolo 2728). Le presunzioni legali, a loro volta, possono essere assolute (praesumptiones iuris et de iure) e relative (praesumptiones iuris tantum). Mentre le presunzioni semplici sono sempre superabili con prova contraria, le presunzioni legali possono essere superate con prova contraria esclusivamente se relative.

Poi vi sono le presunzioni “giurisprudenziali” ossia presunzioni che, seppur non espressamente previste dalla legge, assurgono a praesumptiones iuris et de iure in quanto frutto di orientamenti della giurisprudenza di legittimità e, pertanto, da scalfire molto difficilmente.

Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre comprendere come deve essere declinata la nuova disciplina dell’onere della prova apportata dalla riforma nel giudizio tributario avente ad oggetto fattispecie dominate da presunzioni.

Nel mondo dell’accertamento dei tributi comunali, IMU e TARI principalmente, pare che operino esclusivamente presunzioni semplici con poche presunzioni di natura giurisprudenziale. Tale assunto sconfessa il principio dell’onere della prova novellato dal comma 5-bis dell’articolo 7 del D. Lgs. n. 546/1992. Infatti, in presenza di una presunzione semplice sulla quale si fonda l’accertamento, secondo le prescrizioni del Codice Civile e l’insegnamento della Corte di Cassazione, ricadrà sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria per smentire il fatto presunto dal soggetto attivo d’imposta. Si tratta del principio di cui al secondo comma dell’articolo 2697 del Codice Civile in virtù del quale è chi eccepisce l’inefficacia di un fatto che deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

L’ente impositore, invece, in aderenza al dettato dell’articolo 2729 del Codice Civile, deve dimostrare che la presunzione semplice apportata sia dotata dei caratteri di gravità, precisione e concordanza affinchè possa essere assunta quale prova dal giudice a cui contrapporre la prova contraria del contribuente. Il problema è proprio questo. Non di rado accade nelle controversie tributarie, prese nella generalità e non solo in relazione alla fiscalità locale, che i giudici trattino alla stregua di presunzioni semplici meri indizi emersi nell’attività istruttoria.

Al fine di rendere l’idea di come l’onere della prova del legislatore della riforma debba essere modellato nel processo tributario locale, occorre fare riferimento alle fattispecie “presuntive” maggiormente oggetto di giudizio.

La questione più dibattuta in questo senso, tra cittadini e comuni, attiene certamente alla determinazione delle imposte sulle aree fabbricabili. Tanto nell’ICI e nella previgente IMU, quanto nell’attuale disciplina dell’imposta introdotta dalla legge n. 160 del 2019, per le aree fabbricabili il valore è costituito da quello venale in comune commercio al 1° gennaio dell’anno di imposizione, avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche. Il problema si pone in quanto, al fine di limitare/orientare il potere di accertamento, ai comuni è riconosciuta, nell’ambito della potestà regolamentare di cui godono in base all’articolo 52 del D. Lgs. n. 446 del 1997, la possibilità di determinare periodicamente, e per zone omogenee, i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili tenendo conto, però, di tutti gli elementi sopra richiamati. Secondo l’insegnamento della Cassazione, le determinazioni di stima di tali valori non hanno natura imperativa per cui i contribuenti, nel determinare le imposte dovute, non sono obbligati ad attenersi ai valori di riferimento deliberati, ma sono liberi di discostarsi in presenza di validi elementi contrari. Più volte, difatti, la Suprema Corte ha affermato che le determinazioni dei valori operate dai comuni hanno natura di presunzioni semplici alla stregua delle risultanze dei vecchi studi di settore alle quali, se il contribuente decideva di non adeguarsi, aveva la possibilità di giustificare la correttezza dei dati dichiarati anche, eventualmente, in sede contenziosa. I criteri di valutazione deliberati dalle giunte comunali, d’altronde, costituiscono esclusivamente una base per orientare l’esercizio discrezionale dell’amministrazione a fronte del quale il contribuente che intende contestare la valutazione operata ha l’onere di portare all’attenzione del giudice tributario elementi probatori idonei a dimostrarne l’incongruità (Cassazione nn. 16700/2007 e 21764/2009). Tali elementi, se non di prova in senso stretto, possono rivestire natura istruttoria secondo quanto affermato dalla recente sentenza n. 23894 del 1° agosto 2022, e sono rappresentati – quasi sempre – da una perizia di stima contenente i riferimenti ai predetti elementi richiamati dalla disciplina IMU.

Altra questione idonea a delineare la natura “illusoria” dell’attribuzione dell’onere della prova all’amministrazione finanziaria, per quanto concerne il contenzioso locale, è rappresentata dalla contestazione dei criteri adoperati dai comuni per determinare la TARI a fronte del possesso degli immobili abitativi diversi dall’abitazione principale. Nella normativa relativa alla tassa sui rifiuti, infatti, la suscettibilità di produrre rifiuti si realizza normalmente con la mera occupazione degli immobili. Quando un immobile possa considerarsi occupato viene stabilito dai regolamenti comunali adottati in virtù del sopra richiamato articolo 52 del D. Lgs. n. 446/1997. In funzione della gran parte dei regolamenti, vengono considerati occupati gli immobili nei quali sia attiva almeno una tra le utenze elettriche, idriche, di gas, ecc. anche qualora siano vuoti e disabitati. Il medesimo regolamento può prevedere eventuali riduzioni o esenzioni. Normalmente, con riferimento alle utenze domestiche condotte da soggetti non residenti nel comune in cui ricade l’immobile tenuto a disposizione, o a quelle possedute o occupate da soggetti residenti che però non rappresentino l’abitazione principale, come ad esempio le case di villeggiatura, si tiene conto di un valore convenzionale predeterminato dall’ente che costituisce la numerosità “presunta” del nucleo familiare utile a determinare il tributo. Può accadere pertanto che una famiglia che detiene una casa al mare sia chiamata a corrispondere la tassa per un numero di occupanti di fatto superiore, e quando va bene inferiore, a quelli reali. Tanto l’indice di occupazione dell’immobile, quanto la numerosità convenzionale del nucleo familiare che i regolamenti comunali utilizzano a fondamento della pretesa impositiva non costituiscono altro che presunzioni semplici e, come tali, superabili con prova contraria. Pertanto, anche in questo caso, il contribuente che ritenga incongruo il quantum del tributo richiesto è tenuto a fornire la prova delle proprie ragioni dinanzi al giudice tributario.

Analoghe conclusioni possono essere tratte per i contributi riscossi dai consorzi di bonifica per i quali certa giurisprudenza tende a presumere un beneficio diretto per le proprietà consorziate per il sol fatto di ricadere nel cosiddetto perimetro di contribuenza quando il piano di classifica, ossia la descrizione dettagliata delle opere consortili eseguite, non sia stato impugnato dinanzi al TAR. E anche in tal caso, come è consequenziale, ricade e continuerà a ricadere sul consorziato l’onere di fornire la prova del mancato conseguimento del beneficio dal proprio fondo.

Pertanto, a ben vedere, la novità della riforma non stravolgerà a tutto tondo le attività che i contribuenti dovranno porre in essere qualora ritengano infondate le pretese degli enti impositori. Con le presunzioni semplici, in base alle considerazioni che precedono, cambierà poco e niente rispetto al passato. L’introduzione del comma 5-bis nell’articolo 7 del D. Lgs. n. 546/1992 accende comunque una speranza nella misura in cui emerge la coscienza del legislatore della riforma relativa alla posizione di vantaggio nel giudizio tributario che, sinora, l’Erario ha occupato rispetto al contribuente.

Poi vi è il caso delle presunzioni “giurisprudenziali” che, analogamente alle presunzioni legali assolute, non ammettono prova contraria. E ciò, in questa ipotesi, può anche tornare utile al contribuente. Il caso più ricorrente riguarda il contenzioso tra i cittadini e i comuni che disconoscono i requisiti di ruralità dei fabbricati in virtù del cui possesso è possibile scontare una significativa agevolazione IMU. A tal fine la Suprema Corte è ferma nel ritenere che l’agevolazione competa per la sola risultanza del detto requisito dagli atti catastali, indipendentemente dalle situazioni di fatto. Infatti, il principio di diritto enunciato e innumerevoli volte ribadito dai giudici di legittimità afferma che, ove catastalmente non emerga il possesso del requisito di ruralità, il soggetto passivo che intende beneficiare della tassazione agevolata ha l’onere di impugnare l’atto di classamento catastale. Ha altresì statuito che, al contrario, l’ente comunale che non intenda riconoscere l’agevolazione al fabbricato catastalmente riconosciuto rurale è obbligato ad impugnare l’attribuzione delle particolari categorie catastali A/6 o D/10 ovvero, se fabbricato classificato in diversa categoria, l’avvenuta iscrizione dell’annotazione della sussistenza del requisito di ruralità. È stata in tal modo inibita la contestazione della sussistenza del requisito a mezzo avviso di accertamento relativo all’imposte che l’ente civico intende recuperare.

L’illustrato orientamento prende le mosse dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 18565 del 21 agosto 2009 cui hanno fatto seguito una serie di pronunce del medesimo tenore (Cass., 9 marzo 2018, n. 5769; Cass., 31 ottobre 2017, n. 25936; Cass., 11 maggio 2017, n. 11588; Cass., 20 aprile 2016, n. 7930; Cass., 12 agosto 2015, n. 16737) ed è fondato sul principio secondo il quale la ricorrenza dei requisiti previsti dall’articolo 9 del D.L. n. 557/1993 è riconosciuta mediante l’attribuzione delle apposite categorie catastali ovvero l’inserimento dell’annotazione negli atti del catasto, a nulla rilevando elementi fattuali estranei alle emergenze catastali. In assenza di impugnazione da parte del comune dell’atto catastale, non può considerarsi eccepita dal comune impositore la carenza dei requisiti di ruralità. Pertanto, come affermato nell’ordinanza n. 23386 del 24 agosto 2021, a ragione dell’imposizione ordinaria, non è possibile addurre nemmeno l’avvenuta cessazione dell’attività agricola del soggetto passivo – che di fatto implica l’utilizzo del fabbricato per finalità strumentali all’esercizio dell’attività agricola – poiché circostanza non idonea a scalfire il riconoscimento dei requisiti di ruralità certificati dalle emergenze catastali. La fattispecie in esame conforta l’assimilazione delle presunzioni giurisprudenziali alle presunzioni legali assolute.

Incuriosisce non poco comprendere come la giurisprudenza tributaria, in caso di contenzioso sorto a seguito della sentenza della Corte Costituzione n. 209 depositata il 13 ottobre scorso, coniugherà il nuovo onere della prova posto dall’articolo 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992 a carico dell’Amministrazione comunale che intenderà disconoscere l’agevolazione IMU per abitazione principale per i nuclei familiari con più di una residenza. Con la richiamata sentenza della Consulta, si rammenta essere stato eliminato il riferimento ai componenti del nucleo familiare le cui differenti residenze anagrafiche e dimore abituali alcun rilievo assumono al fine di riconoscere il trattamento agevolato al soggetto passivo d’imposta. Se è vero che spetta ai sindaci dimostrare che il soggetto passivo d’imposta non dimori abitualmente nell’immobile per il quale il contribuente invoca l’esenzione, è altrettanto vero che è onere e interesse del soggetto passivo d’imposta, a conforto della propria correttezza, confutare i mezzi di prova addotti dal comune impositore.

Accantonando per un attimo il discorso relativo alle presunzioni, si ritiene che il novellato articolo 7 del D. Lgs. n. 546/1992, nel disciplinare l’onere della prova, abbia comunque agevolato, almeno in teoria, i contribuenti nei contenziosi instaurati con gli enti civici. Si pensi all’esenzione IMU riconosciuta per i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali o all’ipotesi dell’esenzione riconosciuta alle aree fabbricabili utilizzate per scopi agricoli dai medesimi soggetti anche per le quote eventualmente appartenenti ad altri soggetti passivi d’imposta. Per queste fattispecie, non operando alcuna presunzione, sarà l’ente impositore a dover documentare la mancata conduzione diretta dei cespiti in questione da parte dei contribuenti in possesso delle predette qualifiche.

La prova testimoniale e il rafforzamento della mediazione

A fornire la prova di tali situazioni di fatto potrebbe tornare utile la richiesta ai giudici di merito dell’ammissione della prova testimoniale, altra novità di rilievo della riforma con la modifica del comma 4 del richiamato articolo 7 del D. Lgs. n. 546/1992.

La richiesta potrà essere avanzata da tutte le parti in causa. Tuttavia, con riferimento a quest’ultima novità, si rendono necessarie alcune considerazioni in virtù delle diverse situazioni soggettive e oggettive in cui versano enti impositori e contribuenti.

Nel contenzioso tributario locale, come si è detto, la controversia ha origine nella gran parte dei casi dalla notifica al contribuente di un avviso di accertamento. Più raramente da un diniego, espresso o tacito, ad una istanza di rimborso.

Se la richiesta della prova testimoniale da parte del contribuente per dimostrare un fatto può sempre essere considerata legittima, indipendentemente dalla volontà del giudice di accoglierla o meno, non sembra potersi affermare altrettanto, in modo scontato, dal lato dell’ente impositore. Nessun dubbio pare sussistere nell’ipotesi di testimonianza richiesta al fine si supportare il diniego ad un rimborso. Nel caso dell’accertamento, invece, le cose cambiano. Infatti, sembrerebbe che la testimonianza concorra a sviluppare la fase istruttoria in sede contenziosa e non durante la fase accertativa. Ma ciò non pare possibile. L’avviso di accertamento, infatti, normalmente rappresenta l’atto con il quale si comunica al contribuente l’esito delle operazioni di controllo già concluse alla cui effettuazione hanno concorso tutti i mezzi istruttori.

Una cosa è certa. Oggi più di prima, l’ente impositore deve valutare la convenienza di determinare l’insorgere della lite, non solo alla luce delle novità di cui si è fatto cenno sinora, ma anche del rafforzamento dell’istituito del reclamo/mediazione. Con l’introduzione del comma 9-bis all’articolo 17-bis del D. Lgs. n. 546/1992, infatti, è stato previsto che in caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione, la soccombenza di una delle parti comporta la condanna alle spese di lite. Ma non solo! Se la parte soccombente è l’ente impositore, la condanna alle spese può assumere rilevanza ai fini della responsabilità amministrativa del funzionario che, in maniera immotivata, non abbia ascoltato le ragioni del contribuente. Questo è un aspetto della riforma, oltre che esplicitamente innovativo, molto importante con riferimento al contenzioso con gli enti locali i cui funzionari non solo devono esser bravi nel gioco d’attacco, ma devono saper giocare in difesa non trascurando in alcun modo il faro che la Corte dei Conti, già da un po’ di anni, ha puntato verso di loro. E una condanna alle spese conseguente ad un irragionevole diniego della richiesta di annullamento dell’atto in fase di mediazione costituisce danno erariale di cui la Magistratura contabile è ghiotta!

Il problema relativo alla mediazione risiede nella procedura che non viene espletata da un soggetto terzo, ma nell’ambito della stessa amministrazione fiscale. E se per Agenzia delle entrate, delle dogane e dei monopoli il problema è celato (perché di fatto rimane) dall’articolo 17-bis, comma 4, del D. Lgs. n. 546/1992 che rimette la procedura ad «apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili», non può trarsi la medesima conclusione per gli enti locali, soprattutto se di piccole dimensioni. In tal caso, infatti, la norma richiamata prevede che lo svolgimento della procedura di mediazione possa avvenire a cura di una struttura autonoma «compatibilmente con la propria struttura organizzativa». E ciò che è difficile è proprio trovare questa “compatibilità”. Per le liti soggette a mediazione, inoltre, il legislatore della riforma ha previsto che il giudice possa invitare le parti alla conciliazione. Si ritiene, tuttavia, che non molto successo sortirà la novità nelle controversie con gli enti civici. Infatti, se non in rari casi, come nelle vertenze relative al valore venale delle aree fabbricabili, in cui il giudizio ha ad oggetto il quantum della materia imponibile e della relativa imposta, il contenzioso tributario locale sorge a fronte della contestazione dell’esistenza del presupposto impositivo che, a rigor di logica, non può essere oggetto di conciliazione tra le parti.

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